Pietro Soddu (2009)

da La Nuova Sardegna
2 MARZO 2009

UN PO' WATERLOO
UN PO' CAPORETTO
LA SINISTRA RIFLETTA
O NON VINCERA' PIU'


di Filippo Peretti

CAGLIARI. Il sette volte presidente della Regione Pietro Soddu il 10 dicembre, due settimane prima dello scioglimento del Consiglio regionale per le dimissioni di Renato Soru, aveva invocato un accordo nel Centrosinistra avvertendo che altrimenti si sarebbe sfasciato tutto e che vincere sarebbe stato difficile. Ora che ha vinto il Centrodestra di Ugo Cappellacci, Soddu evita di dire «io l’avevo previsto» ma preferisce rivolgere un nuovo appello alla politica sarda, a iniziare dal Pd, perché apra un grande dibattito sul futuro della Sardegna: «Nessuno sa dove stiamo andando».

— Pietro Soddu, lei aveva avvertito che c’era il rischio di perdere.
«Ed è pure andata bene».

— Come giudica l’entità della sconfitta?
«Un po’ Waterloo e un po’ Caporetto».

— Waterloo perché?
«Un generale contro una grande alleanza. Cade il modello dello stratega solitario, ma i contenuti - come le scelte di governo - restano validi».

— E Caporetto?
«Riguarda il Centrosinistra: un esercito sfiduciato, scontento, non organizzato».

— Perché distingue tra Soru e la coalizione?
«Sono loro ad aver fatto due campagne elettorali distinte».

— Perché questa scelta?
«L’ha imposta Berlusconi attirando su di sè l’attenzione dei media».

— Soru poteva evitarla?
«Penso che sia piaciuta anche a lui perché lo rendeva più riconoscibile e gli evitava il rapporto con la parte più critica dei partiti e della società».

— Soru pensava così di potercela fare?
«Da una parte c’era lo Stato col governo al completo, dall’altra un uomo solo, senza la giunta uscente e senza i suoi partiti. Per questo dico che poteva andare anche peggio».

— Eppure questo scontro ha suscitato passione.
«Sì, ma non sulla Sardegna quanto sul destino politico personale di Berlusconi e di Soru. Infatti le elezioni hanno nascosto i veri problemi e non hanno creato le condizioni per risolverli».

— Perché non ha funzionato il richiamo di Soru all’orgoglio sardo contro il colonizzatore?
«I sardi stanno diventando uguali agli italiani, perché meravigliarsi che Berlusconi vinca anche qui se non si cambiano le basi su cui si forma il consenso?».

— Che fare?
«Il problema vero che ci lasciano le elezioni è proprio questo: serve un grande dibattito su dove vanno la politica e la Sardegna».

— Non avrebbero dovuto farlo i candidati e i partiti in campagna elettorale?
«Lo scontro tra Soru e Berlusconi-Cappellacci ha messo in ombra tutto».

— E i partiti?
«Ma quali partiti».

— Ma nei collegi provinciali, tra le liste, c’è stata lotta dura.
«Ma non politica. Una gara sportiva tra candidati a chi aveva più forza. Altro che elezioni regionali, hanno vinto i campanili».

— Ma con almeno un po’ di rinnovamento.
«Quasi dappertutto hanno avuto la meglio le burocrazie dei partiti in crisi, le strutture di potere locale come case di cura, supermercati, eccetera».

— Colpa anche della preferenza unica?
«E’ barbarica, provoca la degenerazione localistica e clientelare. Favorisce non chi ha idee ma chi ha potere».

— Al di là della battaglia elettorale, Soru perché ha perso?
«Certo, alla fine ha sbagliato valutazione, ma ha perso soprattutto perché a un certo punto della legislatura ha cambiato strategia».

— Quale strategia?
«Nel 2004 era antipartitocratica, di rinnovamento culturale della politica, di modernizzazione e di emancipazione, di nuovo sardismo proiettato nel mondo. Un progetto moderno che aveva raccolto l’adesione di una buona parte della società progressista che non si riconosceva più nei partiti. Poteva essere il nuovo gruppo emergente».

— E invece?
«Ha commesso tre errori».

— Il primo?
«Sciogliere il movimento e puntare sul Pd: di fatto abbandonava il progetto iniziale».

— Il secondo?
«Quello di puntare alla segreteria per avere in mano uno strumento più forte. Si è creato un conflitto, aggravato alla fine dalle voci sulla leadership nazionale, che si è trascinato come coda velenosa sino alle elezioni. Alle quali si è presentato senza un partito organizzato nel territorio, senza dirigenti e senza programmi».

— Il terzo errore?
«Dell’azione di governo sono emerse, anche per le difficoltà politiche, solo i divieti e non le tante cose propositive».

— A suo avviso Soru resterà in politica?
«Dipende molto da lui. Se sarà una decisione priva di risentimenti e se, come folgorato sulla via di Damasco, si indirizzerà verso il modello della responsabilità collettiva».

— Qualche anno fa, quando lei lanciò la proposta “meno autonomia e più sovranità” trovo molti consensi, poi in campagna elettorale ne ha parlato solo Gavino Sale. Sorpreso?
«A parole sono tutti d’accordo. ma forse non è vero. Ed è un peccato. Perché il federalismo di Berlusconi e di Bossi mi viene da chiamarlo feudale. Non capisco la fiducia che i sardisti danno alla benevolenza del premier. Anche la Lega, al di là delle parole rivoluzionarie, sta diventando centralista».

— La sinistra deve ridiscutere di forma di Stato e di governo?
«Sono temi da rimettere al centro. altrimenti cadiamo in una politica conservatrice».

— Qui arriviamo alla sua proposta di un grande dibattito sul futuro della Sardegna. Sono possibili convergenze con il Centrodestra sardo?
«Alcune ci sono già».

— Quali?
«Autogoverno più forte, federalismo solidale, difesa delle entrate, riduzione delle servitù militari, aiuti alle imprese».

— Ma in campagna elettorale non sono venute fuori.
«Perché si è parlato d’altro. Ma auguro al neo presidente Cappellacci che su queste questioni abbia successo. Sulle altre no».

— Quali sono le altre?
«Non vorrei che avesse successo in attività restauratrici legate alla condizione del lavoro, all’oligarchia plutocratica che sta iniziando a comandare anche in Sardegna, al processo di neo collateralismo degli intellettuali precari in qualsiasi attività».

— Quali le battaglie che dovrebbe fare il Centrosinistra?
«Un nuovo programma di emancipazione delle categorie che stanno diventando il nuovo proletariato, per evitare questo processo che fa diventare tutti una moltitudine piccole borghese dominata da pochi padroni in un processo di totale omologazione».

— Un programma ambizioso. Fondato su quali proposte concrete?
«La difesa della dignità del lavoro, i diritti fondamentali, la difesa della scuola pubblica, lo sviluppo attraverso la valorizzazione delle tradizioni locali».

— Il Pd può uscire dalla crisi interna?
«Lo spazio politico c’è. Ma la questione non è questa. Dobbiamo chiederci a cosa deve servire il Pd».

— Secondo lei quale dev’essere il progetto?
«L’impresa è complessa. Per farmi capire cito il teologo Mancuso che ha detto che il Papa dovrebbe indire un concilio, dopo il Vaticano II che ha fatto i conti con la storia, per illuminare il rapporto teologico uomo-natura e chiesa-natura in in relazione ai temi della bioetica».

— Il Pd deve fare una sorta di concilio?
«Con le debite proporzioni, anche la politica popolare e di sinistra dovrebbe fare finalmente molti conti con l’evoluzione sociale in atto».

— Quali conti?
«La caduta dei miti, l’organizzazione partitica che si richiama a valori e principi fondamentali e dice no alla destra compassionevole, il tipo di sindacato, le paure sociali. Altrimenti qualsiasi tipo di riflessione non serve a nulla».

— Sono temi generali. E la Sardegna?
«Il dibattito deve farci capire cosa è cambiato negli ultimi vent’anni, cosa sta succedendo nel profondo della società, perché non vengono più premiati i valori del dovere, l’onestà, il lavoro, la giustizia, perché ci si affida ai padroni».

— Perché i partiti sono in crisi?
«Se in una società sempre più liquida, per dirla alla Bauman, non esistono legami duraturi né giuramenti, perché dovrebbero reggere il partito e la militanza?».

— Come rimediare?
«Ci vuole un ancoraggio. Altrimenti ha ragione Berlusconi che fa e disfa i partiti a seconda di come gli conviene».

— Per rilanciare la politica ha usato due parole simbolo: programmazione e governance. Partiamo dalla programmazione. Lei ci ha creduto negli anni 60 e 70. Modello ancora valido?
«Guai ad affidarsi al mercato o alle tendenze spontanee. Queste fanno sì che La Maddalena sia diventata più importante di Nuoro, cioè della capitale dei valori più autentici dell’isola. Senza programmazione il buco nero delle zone interne si allargherà sino a prendere Sassari».

— Ma la programmazione può imporsi sugli imprenditori?
«No, ma ha la funzione di creare condizioni di maggiore attrattiva, di ridurre le diseconomie e di rendere la Sardegna più equilibrata».

— Altri dicono che la programmazione è uno strumento vecchio.
«Anzi. Di fronte alla crisi mondiale gli Stati non dicono aspettiamo che passi, ma intervengono direttamente sull’economia. Perché non fare così in Sardegna?».

— Le tasse sul lusso servivano a trovare fondi per le zone interne. Ma hanno provocato forti dissensi.
«Io ero d’accordo. E’ una scelta popolare e di sinistra».

— Ma venivano le zone turistiche del resto del Mediterraneo.
«Ma che gli yacht se ne vadano altrove se la Sardegna deve essere una terra a tariffa scontata».

— Un altro tema della programmazione è quello della società della conoscenza. Lei ci crede?
«Sì, è utile anche per coinvolgere le aree più marginali contro lo spopolamento. Ma bisogna pensare al passaggio alla produzione. Altrimenti superformiamo i giovani per farli lavorare altrove».

— Non è d’accordo sul master and back?
«Sì, ma se i giovani possono tornare. Servono ricadute. Prendiamo il G8: perché chiedere strade? Meglio avere un grande istituto internazionale di specializzazione. Da mettere a Nuoro».

— Veniamo alla governance. Come realizzare il progetto?
«Solo coinvolgendo i poteri locali nell’ideazione e nella gestione. La Regione non può scegliere da sola. La correzione andava fatta in questi anni. I sindaci non devono pensare solo allo sviluppo locale, altrimenti si abituano a fare le cose minori, i festival».

— Per il Pd vede un modello legato al leaderismo?
«Per cultura personale sono più vicino al modello della Dc che a quello del vecchio Pci. Va bene leadership collettiva con un primus inter pares».

— Contrario al segretario che governa?
«Dico no a uno che raccoglie in sè tutti i poteri decisionali. E’ per questo che sono antiberlusconiano».

— Lei è stato critico anche sul welfare. Perché?
«Efficientismo e risparmio non possono essere tutto».

— E i conti pubblici?
«Vero, ma se è per fare solo i ragionieri che governino gli altri».

— Uno dei temi forti è il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini.
«Deve essere oggettivo, indipendente ed equo. Tutti uguali, altrimenti la gente non crederà alla giustizia della politica. Guardi le nomine nelle Asl: c’è l’albo degli idonei ma senza graduatoria, ciascuno attinge come vuole. Stiamo tornando indietro».

— Si riparla di clientelismo. La Dc era più o meno clientelare?
«Nella fase iniziale, con l’anafabetismo di massa, era essenziale, quasi da difensore civico. Oggi è quasi strutturale. La precarietà alimenta la tendenza a farsi proteggere».

— L’affidarsi ai potenti?
«Io non accetto l’oligarchia plutocratica né a livello globale né a livello locale. Se la sinistra non scopre questo terreno non vincerà più».